lunedì 14 novembre 2016

Star Trek e il tradimento di Shakespeare ovvero Sull’importanza del titolo


È probabile che se chiedessimo ai fan di Star Trek quale serie amino di più e per quali ragioni, avremmo risposte discordanti,  e forse ci sentiremmo indicare gli stessi elementi  ora come un difetto o un limite, ora  come un pregio o una peculiarità. Anche gli amanti a spada tratta della serie classica (tra cui il sottoscritto) non possono negare che questa soffra talvolta di grosse ingenuità; tuttavia essa annovera un episodio che, a mia conoscenza, non ha eguali nelle altre serie (Next Generation, Deep Space 9) per densità di richiami letterari e per complessità strutturale, al punto da  chiamare in causa un aspetto che è più facile incontrare trattando di  letteratura che di serie televisive: il nesso spesso vitale tra un’opera e il suo titolo. Mi riferisco all’episodio n.13 della prima stagione, intitolato, nella versione inglese “The conscience of the King”, ma tradotto in italiano “La magnificenza del Re”. Teniamo a mente questa differenza perché è il nodo di tutta la questione. 

Innanzitutto la trama dell’episodio: il capitano Kirk sospetta che il celebre attore Anton Karidian sia in realtà il criminale politico Kodos detto “il carnefice”, dato ufficialmente per morto vent'anni prima. Kodos, governatore del pianeta Tarsus IV, aveva ordinato l’esecuzione di migliaia di abitanti durante una grave carestia, per consentire ai superstiti di sopravvivere, e tra le vittime vi erano stati anche familiari dello stesso Kirk. Questi, volendo indagare, si offre di accompagnare con l'Enterprise la compagnia teatrale di Karidian, specializzata in drammi di Shakespeare, sul prossimo pianeta previsto dalla loro tournée; nella compagnia vi è anche la figlia di Karidian, Lenore, da cui Kirk è peraltro notevolmente attratto e che sembra ricambiarlo. Karidian intende sdebitarsi del passaggio intrattenendo l’equipaggio con la rappresentazione di un dramma di Shakespeare. Indagando su una serie di omicidi coincidenti con le tappe della tournée della compagnia, il primo ufficiale Spock scopre che le vittime erano accomunate da un elemento biografico: erano tra le poche persone ancora in vita  in grado di riconoscere de visu "Kodos il carnefice";  inoltre, a bordo dell’Enterprise vi sono due di queste persone: lo stesso Kirk e un altro membro dell'equipaggio e infatti  entrambi subiranno, durante il viaggio, un tentativo di omicidio.
Kirk sottopone Karidian a un test che lo convince della sua identità con Kodos, e così, mentre la compagnia mette in scena Amleto, l'assassino viene allo scoperto per uccidere Kirk: è Lenore, che all'insaputa del padre aveva via via eliminato tutti i testimoni in grado di smascherarlo. Karidian, nel tentativo di impedire che Kirk venga ucciso, è colpito a morte da Lenore, la quale, a causa del dolore, perde la ragione.
L’episodio, come vedremo, è di eccezionale densità perché, oltre a fitte corrispondenze letterarie, sfrutta profondamente l’espediente del metateatro. Se gli sceneggiatori e il regista fossero completamente consapevoli di tale risultanza non saprei dire, anche se sarei propenso a negarlo e a pensare piuttosto che si sia verificata una felice coincidenza di elementi; ma l’efficacia di ciò che ne è risultato resta fuori discussione.
Il metateatro (altrimenti detto “teatro nel teatro”) è l’espediente di inscenare all’interno di una rappresentazione un’altra rappresentazione. Nell’episodio in esame, possiamo riconoscere tre livelli di meateatro: due prodotti dal suo particolare intreccio  e uno strutturale alla serie nel suo insieme. Partiamo da quest’ultimo, osservando che la serie classica di Star Trek ha un’impostazione fortemente teatrale, determinata sia dalla recitazione dei suoi protagonisti e antagonisti principali, sia dai limitati mezzi tecnici ed economici. Le scene di interno erano girate in piccoli studi / teatri di posa e così la gran parte delle scene ambientate sulla superficie di pianeti, che si distinguevano in modo imbarazzante dalle rare esterne,  non potendo nascondere i contorni del  palcoscenico e del fondale né tantomeno le ombre multiple proiettate dalle luci artificiali; gli arredi erano scarsi e spesso palesemente riciclati. L’obiettivo del realismo era talmente fuori portata che si risolse di sostituirlo col pittoricismo e il simbolismo: ambienti per lo più spogli, contrassegnati da pochi oggetti carichi di significato, tanto che in alcuni casi sembra di essere di fronte e dei veri e propri quadri metafisici in tre dimensioni. Guardare un episodio della serie classica di Star Trek significa, oggi forse ancora più di allora, combinare la normale ‘sospensione dell’incredulità’ richiesta dalla fiction con la consapevolezza di assistere non a una ipotetica realtà futura, ma alla rappresentazione teatrale di quella ipotetica realtà. 

Come inzia il nostro episodio? Con un primo piano su un pugnale insanguinato: via via che il campo si allarga e intervengono le voci, si capisce che stiamo assistendo alla rappresentazione teatrale del Macbeth di Shakespeare e proseguendo scopriamo che ci troviamo sul pianeta dove la compagnia di Karidian aveva in programma uno spettacolo; ad esso assistono il capitano Kirk e suo amico Dr. Leighton, che ha attirato lì l’Enterprise con un pretesto, desiderando in realtà confidare all’amico Kirk la sua certezza sull’identità tra Karidian e Kodos, dato per morto vent’anni prima.
Il primo livello di metateatro ha agito subito in apertura creando un’ambiguità: viene ripresa una scena “in costume” recitata sul palcoscenico, all’interno di un'altra scena con gente “in costume” che sono i personaggi di un telefilm teatralizzante: tra le due dimensioni non si percepisce alcuna differenza finché essa non viene evidenziata a forza da un dialogo tra spettatori: il dr. Leighton che  dichiara a Kirk che la voce dell’attore Karidian è inconfondibilmente quella di “Kodos il Carnefice”.
Passiamo ora al secondo livello di metateatro: a brandire il pugnale era proprio Karidian, nei panni di Macbeth che pugnala a morte il dormiente re Duncan. Per quanto concerne il personaggio di Macbeth, basterà qui ricordare che egli, sensibile all’ambizione di conseguire i più alti onori, è combattuto tra la  tentazione di ricorrere a vie disoneste e la consapevolezza che la sua coscienza, in quel caso, lo tormenterebbe senza scampo. Tuttavia, allettato dalle profezie delle tre streghe indovine e aizzato dalla dialettica della moglie, virago per certi tratti ‘demoniaca’, intraprende la strada del delitto in una rovinosa escalation di morte, orrori e ironia tragica.
La sceneggiatura, insomma, ci suggerisce fin da subito l’identificazione Karidian = MacBeth, il che vuol dire la possibilità di giocare a trasferire le qualità dell’uno nell’altro: ambizione, capacità di compiere efferatezze, tormento della coscienza.
Nella scena iii dell’atto I, Macbeth vede per la prima volta  le tre  streghe che così si rivolgono a lui:
PRIMA STREGA:         Salute a te, MacBeth, barone di Glamis!
SECONDA STREGA:  Salute a te, MacBeth, barone di Cawdor!
TERZA STREGA:         Salute a te, MacBeth, che sarai re!

Se l’identificazione Karidian = MacBeth funziona nei due sensi, allora potremmo riformulare il saluto delle streghe in un'unica battuta:
STREGHE:  Salute a te, Karidian, tu che fosti  Kodos!

Il richiamo fonetico  Cawdor/Kodos sembra intrecciare nelle trame imperscrutabili del fato  il futuro prossimo di MacBeth   e il passato lontano di Karidian.
Lasciamo ora il MacBeth per passare ad Amleto: il dramma che la compagnia di Karidian ha scelto di inscenare sull’Enterprise in cambio del passaggio. Qui l’espediente del metateatro raggiunge un ulteriore livello di profondità e di rispecchiamento, attraverso un meccanismo di anticipazione.
All’inizio del dramma, Amleto, pur inquieto e immalinconito oltre misura dalla morte del padre e dalle nozze della madre con lo zio Claudio, non è agitato da sospetti consci, né da una rabbiosa brama di vendetta (priva peraltro di  un plausibile destinatario): sarà il fantasma del padre a infiammarlo, a spingerlo a architettare la vendetta e a nascondere i suoi propositi dietro una pazzia recitata.
La corrispondenza è ora tra Kirk e Amleto: il primo, come il secondo, non è in principio ossessionato dalla vendetta per la morte di un congiunto ed è molto cauto, se non scettico, di fronte alla sicurezza di Leighton. Quando però quest’ultimo viene ucciso (diventando così l’equivalente del “fantasma veridico” di re Amleto), allora Kirk è contagiato dalla stessa febbre e si convince sempre più che Leighton avesse ragione.
L’arrivo a Elsinore di una compagnia di attori girovaghi suggerisce ad Amleto il piano di rappresentare a corte un regicidio per impressionare re Claudio e farlo tradire. Analogamente, Kirk chiede a Karidian di leggere di fronte a un analizzatore vocale il famigerato discorso pronunciato da Kodos vent’anni prima, con cui ordinava l’esecuzione di 4.000 civili, al fine di avere un confronto cogente e stabilirne una volta per tutte l’identità.  Karidian non ha nemmeno bisogno di leggere il  testo, dimostrando di conoscerlo a memoria: il radiodramma organizzato da Kirk ha messo Karidian in trappola. Quando re Claudio, infastidito dallo spettacolo messo in piedi da Amleto, gli chiede il titolo, Amleto risponde: “Trappola per topi”; ma già al termine del soliloquio di II, ii aveva preannunciato che:
"the play's the thing
Wherein I'll catch the conscience of the king".

Dr. Leighton = fantasma di re Amleto; Elsinore = Enterprise; Kirk = Amleto; Karidian = re Claudio; Trappola per topi = comunicato di Kodos.

Vediamo così che  l’Amleto, esso stesso un dramma metateatrale  in cui la finzione del palcoscenico serve a rivelare la verità del dramma, è  anticipato e ricalcato nella realtà dell’episodio di Star Trek.
Ma le corrispondenze non finiscono qui, e anzi si confondono: dietro le quinte dell’Amleto inscenato dalla compagnia di Karidian, Lenore cerca di eliminare Kirk e accidentalmente uccide suo padre.
Un assassinio involontario che si compie dietro il tendaggio che divide attori e spettatori: esattamente come  accade ad Amleto che “scambiandolo per un topo”, trafigge Polonio nascosto dietro un arazzo nella camera della regina, per spiare il suo colloquio col figlio.
La morte di Polonio provoca la pazzia di sua figlia Ofelia, già ferita dal ‘tradimento’ di Amleto.
Il flirt tra Kirk e Lenore  rafforza così l’identificazione di Kirk con Amleto, mentre Karidian/Kodos, proprio per la sua duplice identità, è insieme Re Claudio rispetto a Kirk e Polonio rispetto a Lenore.
Inscenare la sua pazzia, aveva comportato per Amleto troncare il gioco d’amore con Ofelia;  ma  Polonio, capovolgendo le cose, si era convinto che la pazzia di Amleto fosse vera e causata dal rifiuto di Ofelia; la finta pazzia di Amleto diventa così la causa della morte di Polonio e della vera pazzia di Ofelia.
Nella realtà del nostro episodio, la rottura dell’idillio tra Lenore=Ofelia e Kirk=Amleto è causata indirettamente dal secondo per aver smascherato Karidian ed essere diventato un testimone da eliminare.  Inoltre, Kirk = Amleto provoca  indirettamente la morte di Karidian -Kodos = Polonio/Claudio e questa causa la pazzia di sua figlia: la pazzia di Ofelia = la pazzia di Lenore.
Arrivati al culmine di queste vorticose corrispondenze, però, la versione italiana dell’episodio ribadisce l’errore fatale del cambiamento del titolo, facendolo ripetere a Lenore mentre stringe il corpo senza vita del padre vestito per l’Amleto: “Ammirate la magnificenza del re!”.
Di magnificenza, qui, non vi è traccia, e i curatori italiani della serie non hanno capito molto, anzi nulla di questi rimandi e della funzione organica assunta dal titolo originale che, giustamente, è “The conscience of the king”, preso direttamente dall’ultimo verso di Amleto II,ii. “La coscienza del re” è la coscienza di re Claudio, di re Macbeth e di Kodos “re” di Tarsus IV.
Tutto ciò per dire che quando si tratta di applicare i princìpi dell’arte, non vi è distinzione tra generi, né classifiche di serietà. Nell’antichità e nel medioevo opere letterarie e artistiche  erano conosciute sotto molti nomi perché, non avendo alcun titolo, ricevevano denominazioni diverse di chi le citava; a un certo punto, spesso molto tempo dopo, si definiva un titolo, per lo più  postumo, che aveva finito col prevalere su altri concorrenti.
Un testo classico come l’opera storica di Tucidide è universalmente nota come “Guerra del Peloponneso” , che però è un titolo moderno, e per di più inesatto.
Sonetti e canzoni dei poeti europei di età basso medievale sono identificati di solito dal primo verso, non avendo gli autori cincepito l’idea di un “titolo suggestivo”, alla maniera di "Soldati" di Ungaretti, tanto per intenderci.
I titoli dei quadri di Hieronymus Bosch (chi non conosce "Il giardino delle delizie"?) sono invenzioni a posteriori: nessuna fonte dell’epoca riporta titoli originali per le opere di lui conservate.
Gli esempi sono infiniti. Ma nell’arte e nella letteratura  moderne il titolo ha in molti casi una funzione vitale, organica al contenuto dell’opera, spesso decisiva per la comprensione esatta dell’opera stessa. Basterebbe pensare alla pittura surrealista: molti quadri di Dalì subirebbero un danno incalcolabile nella loro comprensione senza il titolo  dato dall’autore. Nel caso delle opere surrealiste o post-moderne, potremmo addirittura affermare che il titolo contribuisce per metà, se non più, al valore complessivo della realizzazione.
Nella letteratura contemporanea certi titoli suggestivi creano suspence nel lettore, che magari deve aspettare le ultime se non l’ultima pagina per capire “come ci azzecca”: Il nome della rosa, The Catcher in the Rye ad esempio; a volte gli autori inventano quiz letterari o di cultura che si aspettano siano risolti  dai loro “lettori ideali”: A che punto è la notte (Fruttero e Lucentini) , La casa di Asterione (Borges), Lot (S. King).
Questi giochi possono anche raggiungere un livello complesso di richiami letterari interni tanto da farci addentrare nelle ramificazioni di una vera e propria “vigna del testo”, come nel caso di questo bellissimo episodio di Star Trek che vede però, nell’edizione italiana, l’imperdonabile tradimento di Shakespeare.

lunedì 30 maggio 2016

La bolla dello stronzo e la legge di Boyle-Mariotte

Cinque anni fa, in un articoletto pubblicato su un mio blog, trattavo dell’impoverimento del linguaggio contemporaneo che “da un lato si mutila delle parole più efficaci e particolari (spazzando via i corrispettivi concetti), dall’altro inflaziona termini più generici (libertà, bene, democrazia) e tanto ne gonfia l’estensione (l’insieme delle realtà a cui sono applicabili), quanto, inversamente, ne riduce l’intensione (il particolare e preciso contenuto, la qualità o proprietà individuale)”. Il mio intervento si focalizzava sul linguaggio della politica. Ora invece intendo riprendere il tema trattando del linguaggio comune. La legge di Boyle-Mariotte descrive il comportamento dei gas perfetti: il loro volume, a temperatura costante, è inversamente proporzionale alla pressione a cui vengono sottoposti. Questa legge la sperimentiamo facilmente osservando le bolle d’aria che, risalendo man mano dal fondo di un contenitore pieno d’acqua, aumentano di volume finché, giunte in superficie, possono prima unirsi dando vita a una più grande, secondo il fenomeno detto coalescenza, e finiscono con lo scoppiare. La legge di Boyle-Mariotte può essere applicata, con qualche adattamento, all’ambito semantico. Le bolle di gas sono le parole messe a disposizione da una lingua e quindi potenzialmente utilizzabili dalla comunità linguistica; la pressione, data dalla profondità del bacino d’acqua, indica il grado di conoscenza e di utilizzo di questo patrimonio da parte della comunità linguistica. In una situazione ideale, cioè di una lingua in salute, viene correntemente impiegato un numero di termini in grado di rendere conto della maggior parte dei contenuti concettuali che i parlatori hanno necessità di esprimere. Tale equilibrio si traduce quindi in una buona profondità dell’acqua: sul fondo, dove la pressione è maggiore, circolano molte bolle di dimensioni ridotte. Vengono infatti impiegati numerosi termini precisi, aderenti a significati specifici, che hanno cioè poca estensione (volume) e molta intensione (densità interna). Man mano che si sale negli strati superiori dell’acqua, troviamo meno bolle e sempre più grandi, ossia termini più generici. In un ambiente linguistico ricco, i campi semantici (gruppi di termini imparentati dalla stessa radice semantica) sono molto popolati, per cui, se la comunità linguistica ha una buona conoscenza dei termini a sua disposizione, il ricorso a perifrasi e ad accostamenti di termini più generici, quando invece si potrebbero utilizzare termini più precisi e appropriati, sarà ragionevolmente contenuto. Mi sto riferendo, per essere ancora più chiari, ai casi in cui un soggetto utilizza termini generici, o persino errati, al punto di mancare l’obiettivo di esprimere correttamente ciò che si vorrebbe, e ciò non a causa della povertà della lingua, ma perché il soggetto che tenta di esprimersi ignora l’esistenza, nella propria lingua, del significante appropriato. Se la pressione è buona, dunque, e un parlatore vuole esprimere quella realtà che è l’ “organo principale dell’aratro, costituito da una lama d’acciaio appuntita anteriormente e disposta di piatto col taglio inclinato…” questi potrà scendere alla profondità giusta dell’acqua dove troverà una sola piccola bolla semantica: il termine vomere. Se il bacino d’acqua è poco profondo, però, e quindi la pressione è scarsa, bolle così piccole e dense non si trovano e il parlatore non troverà di meglio che combinare insieme due bolle più grandi: lama e aratro. La scarsa pressione produce quindi la coalescenza di queste due bolle in una bolla ancora più grande e meno densa (lama dell’aratro), che tuttavia non ha la precisione della piccola bolla del vomere. Perché la colonna d’acqua diminuisce? Il motivo più immediato è che se spariscono determinati oggetti o realtà, finiscono col cadere in disuso i corrispondenti termini che li denominano precisamente, ad esempio: cablogramma, bachelite, giustacuore; oppure alcuni termini più nuovi soppiantano altri per denominare realtà ancora attuali, anche se spesso con gravi perdite, perché per lo più si tratta di termini più generici che inglobano termini più specifici: oggi molti che vedessero un embrice o un coppo lo definirebbero “una tegola”, e se dovessero spiegare cosa vedono dovrebbero dire che una è una tegola fatta così, e l’altra una tegola fatta cosà. Tuttavia, spariscono anche moltissimi termini che sono significanti di realtà ‘eterne’, come quei sostantivi e aggettivi che descrivono stati d’animo e comportamenti tipicamente umani: la nequizia, la neghittosità, l’insipienza, la resipiscenza. E non è che questi atteggiamenti o comportamenti siano passati di moda, a passare di moda è la sensibilità di riconoscere e distinguere le infinite sfaccettature dell’animo umano e il vasto complesso del suo panorama etico. Così, quando all’improvviso al parlatore serve esprimere un concetto di uso non comune, egli magari non sospetta nemmeno che per quel significato possa esistere un preciso significante. Allora si affanna per trovare sinonimi, combinazioni di essi, o perifrasi, per lo più insoddisfacenti. Finché si tratta di perdere qualche secondo in più per descrivere le tegole di una casa rustica di montagna, chissenefrega di non conoscere il termine preciso. Ma quando si è depressi, angosciati, incerti sul senso della vita, innamorati? Quando siamo tempestati da emozioni, sentimenti, condizioni psicologiche che vanno oltre un frasario d’emergenza italiano-cinese ed esulano dal patrimonio di umanità mainstream di un reality, e vorremmo prendere a testate i muri a caccia di un termine adatto per sfogarci su whatsapp o su fb… allora sono dolori. Allora la frustrazione è massima, finché, causa l’insopportabile senso di impotenza, preferiamo concludere che certe cose “non possono essere dette”, che “non esiste il termine giusto”. Balle. Anzi, bolle. Ma non voglio parlare di lettere o messaggi d’amore da farcire di: “deliqui”, “afflati”, “rapimenti”, “conturbamenti”, “elezioni”, “smarrimenti”, “ottenebrazioni”, “aneliti”, “bramosie”, “precordi”, “trasumanare”, “smanie”, “trascendimenti”. Io voglio parlare di un vero e proprio mostro di coalescenza: della grande, mostruosamente dilatata bolla che è diventato l’aggettivo stronzo. Con stronzo oggi definiamo l’individuo che adotta una enorme varietà di comportamenti e con stronzaggine etichettiamo un’altrettanta varietà di atteggiamenti. Può essere definito stronzo: 1) chi non ci dà la precedenza dovuta in strada 2) chi salta la fila 3) il commesso di negozio sbrigativo e sgarbato 4) il compagno di classe che non ci fa copiare durante il compito in classe 5) l’insegnante che ci mette in difficoltà 6) il collega che non ci viene incontro con gli orari 7) il partner che ci trascura, tradisce, umilia 8) l’amico egoista, opportunista 9) il conoscente, amico o parente che ci nega un favore 10) chi è irriconoscente 11) chi è incapace di empatia nei confronti nostri o di altri 12) chi si comporta incivilmente 13) chi è insensibile 14) chi è maleducato 15) chi è anaffettivo 16) chi ci tormenta di pizzicotti, scherzi, schiaffi fastidiosi 17) chi è misogino 18) chi è arrivista 19) chi è nepotista 20) chi non fa eccezioni nemmeno per amicizia 21) chi è aggressivo 22) chi è borderline 23) chi è manipolatore 24) chi ha il disturbo sadico della personalità 25) chi è prepotente 26) chi è narcisista e soffre di protagonismo 27) chi trascura la famiglia 28) chi ignora le nostre attenzioni 29) chi è menefreghista 30) chi è abulico 31) chi è rigoroso 32) chi è permissivo con se stesso ma inflessibile con gli altri 33) chi fa la banderuola per calcolo 34) chi racconta sul nostro conto maldicenze e chiacchiere per il solo gusto di sparlare 35) chi è diretto al punto da essere sgradevole 36) chi non si sente in dovere di dare le dovute spiegazioni 37) chi è assertivo 38) chi si mostra troppo sicuro di sé.
Lo stronzo è quindi una bolla di esagerate proporzioni, di un’estensione tale da perdere qualsiasi utilità concettuale per la corrispondente perdita di intensione. Dire “Il mio fidanzato è uno stronzo” senza aggiungere altro apre all’interlocutore una gamma smisurata di interpretazioni e di ipotesi che vanno dal: “non fa mai le pulizie in casa e manda sempre me, anche quando diluvia, a buttare la pattumiera in cortile” al: “fa il provolone con le mie amiche” al “mi costringe ad abbandonare tutti i miei interessi e a vivere in una relazione chiusa e soffocante”. Affibbiare il titolo di “stronzo”, vero e proprio monstrum di coalescenza buono per tutte le occasioni, è forse una tentazione troppo forte, perché nel bollare qualcuno con la bolla dello stronzo, includiamo anche un giudizio spregiativo, il vilipendio del colpevole, il che è molto pratico. Ma ciò richiede poi di sviluppare un racconto articolato per chiarire a quale delle numerosissime opzioni della lista ci stiamo riferendo, circoscrivendo lo “stronzo” a un agire, a un comportamento psicologico, a una categoria morale particolari. Ma davvero vilipendere il colpevole vale il prezzo di privarsi della possibilità di dettagliare una certa intenzione, lo spirito e l’atteggiamento sotteso a un dato atto o comportamento, visto che esistono delle piccole e dense bolle semantiche che ce lo consentono? È pigrizia, disinteresse, o incapacità di fare i dovuti distinguo? Il mio superiore che mi tratta così male, facendomi sentire il peso delle sue lauree, come se queste lo autorizzassero a parlarmi con insolenza e a guardarmi dall’alto verso il basso, anche e soprattutto davanti agli altri, non è “stronzo” ma protervo. Quello che pensa sempre male, è sospettoso e diffidente e allo stesso tempo colpisce alle spalle non è “stronzo”, è malevolo. Quello che mette al primo posto il proprio tornaconto materiale prima di questioni di ordine morale, anche basilari o banali, ed è solito fare i conti in tasca agli altri non è “stronzo”, è gretto oppure venale. Ma la colonna d’acqua si assottiglia, la pressione cala, le bolle salgono, si dilatano e scoppiano: protervia, malevolenza, grettezza e venalità scoppiano insieme a tanti altri significanti. Non ci sembra il caso di rimpiangerli finché gli imprevisti della vita, però ci colpiscono personalmente, e allora vorremmo trovare la parola giusta per descrivere quel che vediamo ma quella parola altrettanto precisa non la troviamo e finiamo col non porci più nemmeno il dubbio che forse esiste... e poi se esiste? Una serie di problemi:
1) dovremmo trovarla
2) dovremmo spiegarla a chi non l’ha mai sentita, o a chi l’ha sentita ma non sa cosa significhi (il che è più o meno lo stesso)
3) dovremmo affrontare la possibilità di essere addirittura presi in giro o criticati per utilizzare un termine desueto, magari ridicolmente desueto, magari accusati di far sfoggio di cultura. Il che ci riconduce anche al punto 2.
Non sono disincentivi da poco. Credo tuttavia sia giusto provarci: mantenere vive le mille bolle blu della lingua, scendere in profondità per non perdere la profondità dei concetti. Perché, amici, non c’è sensazione più angosciante ed opprimente, quando dentro di noi sentiamo il bisogno di raccontare qualcosa di nostro profondo e sentito, di non avere il linguaggio adeguato per far arrivare agli altri tutto quel che sentiamo. Non c’è niente di così miserevole e umiliante che affannarsi a ricombinare disperatamente sempre quelle quattro o cinque grosse bolle sperando in una miracolosa coalescenza che valga quella piccola perla d’aria che deve esistere, da qualche parte negli abissi. Proviamoci allora, cerchiamo queste piccole bolle. E se non vogliamo correre i rischi numero 2 e 3, facciamo pure precedere qualunque termine più preciso da un sonoro “stronzo”. Mi sembra un dazio da pagare più che accettabile, o no?