lunedì 30 maggio 2016

La bolla dello stronzo e la legge di Boyle-Mariotte

Cinque anni fa, in un articoletto pubblicato su un mio blog, trattavo dell’impoverimento del linguaggio contemporaneo che “da un lato si mutila delle parole più efficaci e particolari (spazzando via i corrispettivi concetti), dall’altro inflaziona termini più generici (libertà, bene, democrazia) e tanto ne gonfia l’estensione (l’insieme delle realtà a cui sono applicabili), quanto, inversamente, ne riduce l’intensione (il particolare e preciso contenuto, la qualità o proprietà individuale)”. Il mio intervento si focalizzava sul linguaggio della politica. Ora invece intendo riprendere il tema trattando del linguaggio comune. La legge di Boyle-Mariotte descrive il comportamento dei gas perfetti: il loro volume, a temperatura costante, è inversamente proporzionale alla pressione a cui vengono sottoposti. Questa legge la sperimentiamo facilmente osservando le bolle d’aria che, risalendo man mano dal fondo di un contenitore pieno d’acqua, aumentano di volume finché, giunte in superficie, possono prima unirsi dando vita a una più grande, secondo il fenomeno detto coalescenza, e finiscono con lo scoppiare. La legge di Boyle-Mariotte può essere applicata, con qualche adattamento, all’ambito semantico. Le bolle di gas sono le parole messe a disposizione da una lingua e quindi potenzialmente utilizzabili dalla comunità linguistica; la pressione, data dalla profondità del bacino d’acqua, indica il grado di conoscenza e di utilizzo di questo patrimonio da parte della comunità linguistica. In una situazione ideale, cioè di una lingua in salute, viene correntemente impiegato un numero di termini in grado di rendere conto della maggior parte dei contenuti concettuali che i parlatori hanno necessità di esprimere. Tale equilibrio si traduce quindi in una buona profondità dell’acqua: sul fondo, dove la pressione è maggiore, circolano molte bolle di dimensioni ridotte. Vengono infatti impiegati numerosi termini precisi, aderenti a significati specifici, che hanno cioè poca estensione (volume) e molta intensione (densità interna). Man mano che si sale negli strati superiori dell’acqua, troviamo meno bolle e sempre più grandi, ossia termini più generici. In un ambiente linguistico ricco, i campi semantici (gruppi di termini imparentati dalla stessa radice semantica) sono molto popolati, per cui, se la comunità linguistica ha una buona conoscenza dei termini a sua disposizione, il ricorso a perifrasi e ad accostamenti di termini più generici, quando invece si potrebbero utilizzare termini più precisi e appropriati, sarà ragionevolmente contenuto. Mi sto riferendo, per essere ancora più chiari, ai casi in cui un soggetto utilizza termini generici, o persino errati, al punto di mancare l’obiettivo di esprimere correttamente ciò che si vorrebbe, e ciò non a causa della povertà della lingua, ma perché il soggetto che tenta di esprimersi ignora l’esistenza, nella propria lingua, del significante appropriato. Se la pressione è buona, dunque, e un parlatore vuole esprimere quella realtà che è l’ “organo principale dell’aratro, costituito da una lama d’acciaio appuntita anteriormente e disposta di piatto col taglio inclinato…” questi potrà scendere alla profondità giusta dell’acqua dove troverà una sola piccola bolla semantica: il termine vomere. Se il bacino d’acqua è poco profondo, però, e quindi la pressione è scarsa, bolle così piccole e dense non si trovano e il parlatore non troverà di meglio che combinare insieme due bolle più grandi: lama e aratro. La scarsa pressione produce quindi la coalescenza di queste due bolle in una bolla ancora più grande e meno densa (lama dell’aratro), che tuttavia non ha la precisione della piccola bolla del vomere. Perché la colonna d’acqua diminuisce? Il motivo più immediato è che se spariscono determinati oggetti o realtà, finiscono col cadere in disuso i corrispondenti termini che li denominano precisamente, ad esempio: cablogramma, bachelite, giustacuore; oppure alcuni termini più nuovi soppiantano altri per denominare realtà ancora attuali, anche se spesso con gravi perdite, perché per lo più si tratta di termini più generici che inglobano termini più specifici: oggi molti che vedessero un embrice o un coppo lo definirebbero “una tegola”, e se dovessero spiegare cosa vedono dovrebbero dire che una è una tegola fatta così, e l’altra una tegola fatta cosà. Tuttavia, spariscono anche moltissimi termini che sono significanti di realtà ‘eterne’, come quei sostantivi e aggettivi che descrivono stati d’animo e comportamenti tipicamente umani: la nequizia, la neghittosità, l’insipienza, la resipiscenza. E non è che questi atteggiamenti o comportamenti siano passati di moda, a passare di moda è la sensibilità di riconoscere e distinguere le infinite sfaccettature dell’animo umano e il vasto complesso del suo panorama etico. Così, quando all’improvviso al parlatore serve esprimere un concetto di uso non comune, egli magari non sospetta nemmeno che per quel significato possa esistere un preciso significante. Allora si affanna per trovare sinonimi, combinazioni di essi, o perifrasi, per lo più insoddisfacenti. Finché si tratta di perdere qualche secondo in più per descrivere le tegole di una casa rustica di montagna, chissenefrega di non conoscere il termine preciso. Ma quando si è depressi, angosciati, incerti sul senso della vita, innamorati? Quando siamo tempestati da emozioni, sentimenti, condizioni psicologiche che vanno oltre un frasario d’emergenza italiano-cinese ed esulano dal patrimonio di umanità mainstream di un reality, e vorremmo prendere a testate i muri a caccia di un termine adatto per sfogarci su whatsapp o su fb… allora sono dolori. Allora la frustrazione è massima, finché, causa l’insopportabile senso di impotenza, preferiamo concludere che certe cose “non possono essere dette”, che “non esiste il termine giusto”. Balle. Anzi, bolle. Ma non voglio parlare di lettere o messaggi d’amore da farcire di: “deliqui”, “afflati”, “rapimenti”, “conturbamenti”, “elezioni”, “smarrimenti”, “ottenebrazioni”, “aneliti”, “bramosie”, “precordi”, “trasumanare”, “smanie”, “trascendimenti”. Io voglio parlare di un vero e proprio mostro di coalescenza: della grande, mostruosamente dilatata bolla che è diventato l’aggettivo stronzo. Con stronzo oggi definiamo l’individuo che adotta una enorme varietà di comportamenti e con stronzaggine etichettiamo un’altrettanta varietà di atteggiamenti. Può essere definito stronzo: 1) chi non ci dà la precedenza dovuta in strada 2) chi salta la fila 3) il commesso di negozio sbrigativo e sgarbato 4) il compagno di classe che non ci fa copiare durante il compito in classe 5) l’insegnante che ci mette in difficoltà 6) il collega che non ci viene incontro con gli orari 7) il partner che ci trascura, tradisce, umilia 8) l’amico egoista, opportunista 9) il conoscente, amico o parente che ci nega un favore 10) chi è irriconoscente 11) chi è incapace di empatia nei confronti nostri o di altri 12) chi si comporta incivilmente 13) chi è insensibile 14) chi è maleducato 15) chi è anaffettivo 16) chi ci tormenta di pizzicotti, scherzi, schiaffi fastidiosi 17) chi è misogino 18) chi è arrivista 19) chi è nepotista 20) chi non fa eccezioni nemmeno per amicizia 21) chi è aggressivo 22) chi è borderline 23) chi è manipolatore 24) chi ha il disturbo sadico della personalità 25) chi è prepotente 26) chi è narcisista e soffre di protagonismo 27) chi trascura la famiglia 28) chi ignora le nostre attenzioni 29) chi è menefreghista 30) chi è abulico 31) chi è rigoroso 32) chi è permissivo con se stesso ma inflessibile con gli altri 33) chi fa la banderuola per calcolo 34) chi racconta sul nostro conto maldicenze e chiacchiere per il solo gusto di sparlare 35) chi è diretto al punto da essere sgradevole 36) chi non si sente in dovere di dare le dovute spiegazioni 37) chi è assertivo 38) chi si mostra troppo sicuro di sé.
Lo stronzo è quindi una bolla di esagerate proporzioni, di un’estensione tale da perdere qualsiasi utilità concettuale per la corrispondente perdita di intensione. Dire “Il mio fidanzato è uno stronzo” senza aggiungere altro apre all’interlocutore una gamma smisurata di interpretazioni e di ipotesi che vanno dal: “non fa mai le pulizie in casa e manda sempre me, anche quando diluvia, a buttare la pattumiera in cortile” al: “fa il provolone con le mie amiche” al “mi costringe ad abbandonare tutti i miei interessi e a vivere in una relazione chiusa e soffocante”. Affibbiare il titolo di “stronzo”, vero e proprio monstrum di coalescenza buono per tutte le occasioni, è forse una tentazione troppo forte, perché nel bollare qualcuno con la bolla dello stronzo, includiamo anche un giudizio spregiativo, il vilipendio del colpevole, il che è molto pratico. Ma ciò richiede poi di sviluppare un racconto articolato per chiarire a quale delle numerosissime opzioni della lista ci stiamo riferendo, circoscrivendo lo “stronzo” a un agire, a un comportamento psicologico, a una categoria morale particolari. Ma davvero vilipendere il colpevole vale il prezzo di privarsi della possibilità di dettagliare una certa intenzione, lo spirito e l’atteggiamento sotteso a un dato atto o comportamento, visto che esistono delle piccole e dense bolle semantiche che ce lo consentono? È pigrizia, disinteresse, o incapacità di fare i dovuti distinguo? Il mio superiore che mi tratta così male, facendomi sentire il peso delle sue lauree, come se queste lo autorizzassero a parlarmi con insolenza e a guardarmi dall’alto verso il basso, anche e soprattutto davanti agli altri, non è “stronzo” ma protervo. Quello che pensa sempre male, è sospettoso e diffidente e allo stesso tempo colpisce alle spalle non è “stronzo”, è malevolo. Quello che mette al primo posto il proprio tornaconto materiale prima di questioni di ordine morale, anche basilari o banali, ed è solito fare i conti in tasca agli altri non è “stronzo”, è gretto oppure venale. Ma la colonna d’acqua si assottiglia, la pressione cala, le bolle salgono, si dilatano e scoppiano: protervia, malevolenza, grettezza e venalità scoppiano insieme a tanti altri significanti. Non ci sembra il caso di rimpiangerli finché gli imprevisti della vita, però ci colpiscono personalmente, e allora vorremmo trovare la parola giusta per descrivere quel che vediamo ma quella parola altrettanto precisa non la troviamo e finiamo col non porci più nemmeno il dubbio che forse esiste... e poi se esiste? Una serie di problemi:
1) dovremmo trovarla
2) dovremmo spiegarla a chi non l’ha mai sentita, o a chi l’ha sentita ma non sa cosa significhi (il che è più o meno lo stesso)
3) dovremmo affrontare la possibilità di essere addirittura presi in giro o criticati per utilizzare un termine desueto, magari ridicolmente desueto, magari accusati di far sfoggio di cultura. Il che ci riconduce anche al punto 2.
Non sono disincentivi da poco. Credo tuttavia sia giusto provarci: mantenere vive le mille bolle blu della lingua, scendere in profondità per non perdere la profondità dei concetti. Perché, amici, non c’è sensazione più angosciante ed opprimente, quando dentro di noi sentiamo il bisogno di raccontare qualcosa di nostro profondo e sentito, di non avere il linguaggio adeguato per far arrivare agli altri tutto quel che sentiamo. Non c’è niente di così miserevole e umiliante che affannarsi a ricombinare disperatamente sempre quelle quattro o cinque grosse bolle sperando in una miracolosa coalescenza che valga quella piccola perla d’aria che deve esistere, da qualche parte negli abissi. Proviamoci allora, cerchiamo queste piccole bolle. E se non vogliamo correre i rischi numero 2 e 3, facciamo pure precedere qualunque termine più preciso da un sonoro “stronzo”. Mi sembra un dazio da pagare più che accettabile, o no?

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