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La tigre e il pipistrello: riflessioni su linguaggio e pensiero nella politica di oggi
"Noi abbiamo pochi nomi e poche definizioni per una infinità di cose singole. Dunque il ricorso all’universale non è una forza del pensiero ma una infermità del discorso. Il dramma è che l’uomo parla sempre in generale mentre le cose sono singolari. Il linguaggio nomina appannando l’insopprimibile evidenza dell’individuale esistente."
Umberto Eco, Sull’essere, in Kant e l’ornitorinco, Milano, Bompiani, 1997, p.13.
È possibile ignorare, sottovalutare, dimenticare l’ineluttabile inadeguatezza del linguaggio?
Sì, perché siamo uomini, portati all’errore, e spesso viziati da troppa sicurezza.
Se oggi volessi indignarmi con qualcuno, lo farei con chi usa con dolo il gap segnalato da Umberto Eco, facendo credere che il vuoto dell’universale, lo slogan, corrisponda all’articolata singolarità del reale. Mi riferisco all’attuale neolingua dei media, soprattutto alla sua declinazione politica, che allarga questo gap impoverendo il linguaggio e limitando ulteriormente le possibilità del discorso di avvicinarsi al reale.
Ma attenzione: è facile additare il vizio linguistico in politici, giornalisti, pubblicitari. Difficile ammettere che il diavolo è dentro la cattedrale, che la stessa inclinazione si annida in noi stessi, nell’edicolante sotto casa, nella parrucchiera, nei pendolari compagni di viaggio con cui commentiamo la politica, la cronaca, lo sport. Se volessimo fare dell’intellettualismo etico, potremmo dire che, almeno, i professionisti della comunicazione sono consapevoli del fenomeno e lo sfruttano, mentre la gente comune no: ne è solo vittima, sia perché subisce il raggiro, sia perché a sua volta lo esercita, questa volta inconsciamente, su se stessa e sugli altri. Siamo così sicuri di avere piena padronanza del nostro pensiero e che il linguaggio sia un docile strumento al servizio delle idee?
Prendiamo atto che la realtà è ben diversa: noi pensiamo molte cose attraverso il linguaggio, anzi fondandole sul linguaggio. Fintanto che pensiamo attraverso il linguaggio, i suoi limiti diventano i limiti del pensiero, e se il linguaggio si impoverisce, ciò ha ricadute immediate sul pensiero. È un punto tanto fondamentale che, prima di esporre le mie considerazioni sul linguaggio usato oggi nei media, provo a illustrare il meccanismo con un esempio semplice e neutro.
Le fiabe utilizzano allo sfinimento pochi schemi narrativi, in particolare lo schema triadico: tre figlie, tre sorelle, tre prove, tre indovinelli, tre desideri ecc. I componenti delle triadi sono caratterizzati da una serrata corrispondenza dei loro elementi, in un rapporto, diciamo, di uno a uno. Per farsene un’idea basta leggersi a caso qualche storia delle Fiabe italiane di Italo Calvino. In questa raccolta, però, c’è una fiaba, La vedova e il brigante, in cui la corrispondenza salta:
La vedova... si finse ammalata e disse al figlio: “Se non ho un po' di latte di leonessa, muoio.”
(Il figlio) andò nel bosco e trovò il leone.
“Compare” gli disse il leone, cosa andate cercando da queste parti?”
“Compare leone,” rispose lui “io sono venuto per un po' di latte della comare leonessa.”
[…]
Il figlio andò per il latte dell'orsa. Quando arrivò dall'orso, l'orso disse: “Compare, cosa sei venuto a fare qui?”
“Compare orso,” rispose lui “sono venuto da voi perché ho la madre malata che vuole un po’ di latte di comare orsa per guarire.”
[...]
Il figlio partì... per cercare il latte della tigre. Quando lo vide arrivare la tigre gli disse: “Compare, cosa siete venuto a fare?”
“Comare tigre, sono venuto perché ho la madre malata e vuole un po’ del vostro latte.”
Che fine ha fatto il maschio della tigre? È sparito per un motivo linguistico: ove in italiano esistono le coppie leone/leonessa eorso/orsa, la tigre ha il solo genere femminile. Questo limite della lingua finisce con l’investire l’universo concettuale della fiaba, da cui il povero maschio della tigre è escluso.
La sua dipartita in una storiella è, in fondo, peccato veniale, ma assume proporzioni nazional-culturali quando il povero tigre comincia a essere defenestrato dai programmi televisivi, dalla politica, dai telegiornali e - come non bastasse - si cerca di surrogarlo con ghepardi, gatti, o peggio ancora liocorni. Eppure in molti casi la soluzione è assolutamente a portata del linguaggio, solo che la rifiutiamo, scegliendo di oltraggiare il pensiero.
Prendiamo il termine antisemitismo: inteso come ostilità verso gli ebrei, può ancora funzionare – per quanto del tutto impreciso – fintanto che lo attribuiamo, ad esempio, a europei e americani, non certo quando si tratta del sentimento di odio etnico-religioso da parte di popoli di fede islamica, semiti tanto quanto gli ebrei! Non risolve il problema la parola antisionismo: ha un accezione politica che ci allontana dal campo semantico di antisemitismo. Esiste invece un termine del tutto appropriato che è antigiudaismo, ma ahimè, non è 'branded' e viene quindi beatamente snobbato.
Consideriamo adesso l’espressione "Medio oriente", usata quotidianamente per Paesi come Israele, Palestina, Libano, Giordania… Visto che l’Estremo oriente incomincia con la Cina, questo Medio oriente assume dimensioni smisurate, dall’India al Mediterraneo! E il Vicino oriente? Dove è andato a finire? Defenestrato come il tigre? Temo di sì. Ma perché? Possiamo scegliere tra la pigra abitudine a un lessico approssimativo e motivazioni di ordine psicologico: Israele, Palestina, Libano, Giordania sono troppo turbolenti, troppo associati a un’idea di guerra e terrorismo permanenti perché la mentalità europocentrica tolleri l’idea di una loro vicinanza geografica. Quindi, niente Vicino oriente, al massimo Medio. Ed ecco che, quasi senza accorgercene, siamo già entrati nel campo della politica, del potere psicagogico della sua retorica: un linguaggio drogato e drogante, che da un lato si mutila delle parole più efficaci e particolari (spazzando via i corrispettivi concetti), dall’altro inflaziona termini più generici (libertà, bene, democrazia) e tanto ne gonfia l’estensione (l’insieme delle realtà a cui sono applicabili), quanto, inversamente, ne riduce l’intensione (“il particolare e preciso contenuto, la qualità o proprietà individuale” [treccani.it]).
Un anelito verso l’universale, insomma, ma - ahinoi – niente affatto nobile, perché mira a scansare quel fastidioso ingombro chiamato realtà concreta.
“Il ricorso all’universale non è una forza del pensiero ma una infermità del discorso”, ci ricorda Eco. Com’è allora che queste arance siringate, asfittiche, che faticano a riempire mezzo bicchiere, riescono a dissetare molti? Come possono queste nuvole di gambero, diafane e dal sapore tenue, sfamare certuni come un arrosto?
Sospetto che il degrado culturale dell’ultimo quarto di secolo abbia reso molti stomaci piccoli e senza pretese. È arduo altrimenti spiegare perché mentre nel teatro della politica si evocano ancora i fantasmi esangui di liberalismo, comunismo, stalinismo, fascismo, quasi fossero sostanze storiche di stretta attualità, nella categoria del diritto si include più facilmente la copertura satellitare del nostro cellulare che la possibilità di scegliere l’eutanasia, o con chi vogliamo sposarci.
Di continuo ci sono propinate enormi bistecche anabolizzate che alla prova della padella si riducono a monete gommose: l’anticomunismo di Berlusconi (“versione casereccia della teoria manichea dell’ asse del male che regge la politica della principale potenza mondiale” suggerisce Pietro Folena) s’impernia su un’attribuzione iperestesa – nonché anacronistica – di comunismo a soggetti politici in cui ormai è difficile trovare la qualità particolare che il termine comunismo richiede (intensione). Ma anzi, l’iperestensione del termine comunismo è tale da travalicare la categoria del politico: diventa comunismo tutto ciò che non appartiene all’ordine del Berlusconi-pensiero (potenzialmente, da Emergency a Renato Zero).
Come se il linguaggio non avesse già i suoi problemi!
Ad esempio, si trova in serio imbarazzo con le definizioni. Le definizioni, si sa, son fatte per genus proximum et differentiam specificam, indicando cioè un genere prossimo e una differenza specifica, che come uccellini e nidi devono prendere posto in un albero delle specie e delle differenze, un albero che nemmeno Aristotele “riesce mai ad applicare in modo omogeneo e rigoroso” (U. Eco, ibidem).
Dopo il tigre, emblema di un pensiero depauperato dal linguaggio, occupiamoci del pipistrello di Esopo, che per il suo uso astuto dell’imbarazzo definitorio, è il perfetto totem dei parolai politici:
Un pipistrello, caduto per terra, fu afferrato da una donnola e, mentre stava per esser ucciso, la pregava di risparmiarlo. Quella dichiarò che non poteva lasciarlo andare, perché essa era per natura nemica di tutti gli uccelli. Allora il pipistrello spiegò che esso non era un uccello, ma un topo, e così fu lasciato andare. Più tardi cadde di nuovo, fu preso da un’altra donnola, e pregò anche quella di non divorarlo. Quella rispose che essa odiava tutti i topi, e il pipistrello, dichiarando che non era un topo bensì un uccello, se la cavò di nuovo. Ecco come fu che, con un cambiamento di nome, il pipistrello riuscì a sfuggire due volte alla morte.
Stiamo alla cronaca d’oggi. Il pipistrello italiano vuole papparsi una preda: partecipare in qualche modo alle manovre contro la Libia per trarne vantaggio, o quanto meno per limitare gli svantaggi derivanti della situazione di quel Paese. E ha necessità di tenersi buone due donnole: la NATO e l’opinione pubblica nazionale. Che può fare? Per prima cosa, prende tempo con entrambe e compie una serie di svolazzi sempre più stretti sulla preda: l’Italia non parteciperà ad azioni militari contro la Libia. Anzi no: offrirà solo un contributo logistico. Anzi, no: invierà aerei, ma non a scopo di bombardamento, solo per guastare i radar nemici. Anzi no: i caccia italiani useranno dei missili, ma solo su obiettivi militari. La donnola NATO, alla fine, è accontentata.
E la donnola dell’opinione pubblica? Beh, ora che l’Italia è in guerra, il pipistrello deve dare l’impressione che in realtà non ci è entrata e sostenere che ciò che sembra, in realtà non è. La soluzione più economica è formulare una definizione di guerra che non corrisponda ai termini dell’attuale coinvolgimento italiano nelle operazioni.
Così, il 27 aprile scorso, ci troviamo le seguenti dichiarazioni.
Il Ministro degli Esteri Frattini: “Esclusa l’azione di terra, o colpiamo con singole azioni aeree mirate i carri armati di Gheddafi o lasciamo consapevolmente uccidere civili a centinaia o forse a migliaia. Ecco perché non possiamo tirarci indietro”.
E parla di “operazioni chirurgiche”, “senza provocare danni”.
Il Ministro della Difesa La Russa spiega che non si tratta di una svolta dell’impegno italiano nel Paese e che il terminebombardamenti è “fuorviante”. Si tratta invece di “un adeguamento dell’Italia agli sforzi della comunità internazionale attraverso l’aumento dell’efficacia del suo intervento all’interno della stessa strategia”.
L’Italia, quindi, non è in guerra perché “colpisce senza far danni” e soprattutto perché non impiega truppe di terra. In altre parole il nostro pipistrello dice a una donnola che non è un uccello, e all’altra che non è un topo.
Immagino non serva riportare le definizioni di guerra ebombardamento proposte dall’enciclopedia Larousse. Ma vale la pena ripetere la definizione di bombardamento dell’enciclopedia La Russa (e potrebbe essere, sia chiaro, l’enciclopedia D'Alema):adeguamento del contributo agli sforzi della comunità internazionale attraverso l’aumento dell’efficacia dell’intervento all’interno della stessa strategia.
L’evanescenza di una dichiarazione del genere corrisponde a quella che Calvino, negli anni ‘60, chiamò l’antilingua, una lingua che tanto aborre la pestilenziale, oscena concretezza del reale da tradurne ogni oggetto, ogni azione, ogni manifestazione in categorizzazione astratta. Questo vecchio linguaggio burocratico e politichese, proprio della Prima Repubblica, è oggi eroso dallaneolingua della nuova politica, geneticamente mescolata al marketing e caratterizzata da moduli espressivi quali lo sparagrossismo e lo slogan. Tuttavia non è strano che alla neolingua si preferisca ancora l’antilingua vecchia maniera nell’affrontare una faccenda spinosa come una guerra fuori dalla porta di casa, in cui c’è molto da perdere e quasi nulla da guadagnare, e sulla quale conviene investire poco ed esporsi ancora meno (la dura lex dei sondaggi!).
Ma mentre l’antilingua, per aggirare la concretezza, accumula neologismi e neoperifrasi in chiave astratta, la neolingua riduce il lessico e svuota di sostanza le parole che conserva.
È un procedimento già prefigurato da George Orwell in 1984, come ricorda opportunamente Pietro Folena:
“Stiamo dando alla lingua la sua forma finale…Tu crederai che il lavoro consista nell’inventare nuove parole. Neanche per sogno! Noi distruggiamo le parole…centinaia ogni giorno. Stiamo riducendo la lingua all’osso”. Sì, perché nel dominio totalitario di Oceania, la cultura e il pensiero critico sono il principale pericolo. “Il principale intento della neolingua consiste nel semplificare al massimo le possibilità di pensiero”. Lo “psicoreato” (e cioè il delitto di pensiero) diventerà impossibile perché non ci saranno più le parole per esprimerlo.
L’orrore per il procedimento argomentativo, per l’articolazione e l’estensione del discorso arrivano al punto paradossale di esporre a critiche di anacronismo la caleidoscopica retorica, non di rado letteraria e umanistica, di Nichi Vendola: il suo bagaglio culturale, la proprietà di linguaggio e di organizzazione del discorso, la capacità di coagulare aspetti apparentemente scollegati della nostra realtà secondo una coerenza che diventa poco alla volta manifesta a chi ha la pazienza di ascoltarlo, risultano obsoleti, fuori luogo, completamente esorbitanti i tempi degli sketch, dei battibecchi televisivi, delle balconate mussoliniane cui ormai si è adattata la quasi totalità dell’arco parlamentare.
La neolingua della politica preferisce infatti lo slogan, perché lo slogan consente di vendere un’idea senza la fatica di doverla argomentare. Lo slogan è un assioma che piace, che ti prende perché suggestiona, come uno spot ben riuscito, o un fotogramma lisergico di David Lynch. Non pretende argomenti, anzi ne ha orrore. “Sottratto ab aeterno a ogni razionale discussione” (R. Ronchi, Parlare in neolingua), è il dionisiaco non temperato dall’apollineo.
Una volta i giornalisti distillavano, e se necessario forzavano, lunghe dichiarazioni in antilingua per estrarre dal cilindro dei titoli suggestivi. Ora gli basta riportare paro paro lo slogan sfornato direttamente dalla neolingua dei politici e pronto, ancora fumante, per essere consumato all’ora di cena davanti al televisore.
4 maggio 2011
Riferimenti bibliografici:
http://taccuinoanacronistico.blogspot.com/2010/11/tra-semiotica-mercato-e-pretesa.html
http://www.mariannetv.eu/2010/08/03/riflessioni-su-il-linguaggio-della-politica-e-quello-del-supermercato-intervento-di-giuseppe-pasero/
http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/04/27/libia-frattini-riferisce-in-camera-e-senatoo-colpiamo-o-lasciamo-uccidere-i-civili/107387/
http://www.pietrofolena.net/blog/?page_id=9
Umberto Eco, Kant e l’ornitorinco
Italo Calvino, Fiabe italiane
Italo Calvino, Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società
Esopo, Favole
George Orwell, 1984