mercoledì 22 maggio 2019

Il finale del Trono di Spade: quando ciò che è "giusto" delude



Delusione e perplessità.

Ma era inevitabile che Daenerys morisse?

E perché è diventato re Bran il Rotto e non Jon Snow?

Sia chiaro, l’ottava stagione del Trono di Spade ha evidenziato dei difetti: una certa “fretta di arrivare a …”, la fiacchezza di alcune interpretazioni, la sensazione che dietro certi stati d’animo o veri e propri psicodrammi si celi una sorta di forzatura (a incominciare dall’Eros-Thanatos tra Jon Snow e Daenerys). Queste pecche diamole per assodate e passiamo oltre; è infatti importante esaminare aspetti decisamente più seri delle performance attoriali o dello smalto degli sceneggiatori: aspetti di natura più essenziale, e precisamente – per usare un termine impegnativo – storico-antropologica. Diversamente, non è possibile giudicare con serena cognizione l’episodio di chiusura che, come è inevitabile, ci porta a esprimere considerazioni complessive sul senso generale - o forse sarebbe meglio dire lo spirito - dell’intera epopea concepita da George Martin.
Intanto, diciamo subito che la differenza tra una storia avvincente e una storia profonda è un po’ la stessa che corre tra una travolgente passione e il vero amore: la prima è un’esplosione pirotecnica che bombarda nell’immediato i sensi, ma poi si riassorbe in fretta lasciando più che altro un senso di vuoto; il secondo, pur privo della spettacolarità dei fuochi d’artificio, si irradia quieto e costante superando le onde del tempo.
Personalmente, sono convinto che Il trono di Spade sia vero amore e non passione e intendo dimostrarlo. Torniamo quindi alle brucianti domande dell’incipit:

Era inevitabile che Daenerys morisse?

Perché è diventato re Bran il Rotto e non Jon Snow?

La risposta del Trono di spade è una, categorica e piuttosto irritante: perché è giusto e perché è wyrd (destino), che vi piaccia o no.
E badate, tanto la “e” tra giusto e wyrd quanto quel “che vi piaccia o no” sono parte integrante e sostanziale della risposta. Dicevamo, ci servono coordinate storico-antropologiche.
Dobbiamo tenere in considerazione, da un lato, il particolare genere dell’opera, le tradizioni di cui è erede e quindi dei sistemi di civiltà di cui è espressione; dall’altro, il pubblico (noi) a cui l'opera è rivolta, con le sue aspettative e relativo ordine di valori in cui si riconosce: di fatto, un ancor diverso sistema di civiltà.
Tra questa epopea e noi esistono dei gap, non tutti o non del tutto colmabili, ed è esattamente questo a produrre in molti spettatori delusione e perplessità. Delusione e perplessità – peraltro – sarebbero una reazione naturale di chi non riconosce gli sforzi o magari non condivide le soluzioni proposte da George Martin per gettare un ponte tra sistemi così distanti.
D'altronde, questa non è una fiaba al borotalco, ma il risultato dell’incrocio e della stratificazione dell’epica cavalleresca tardo-medievale e moderna da una parte (dal Ciclo Brettone all’Orlando Furioso), con la tradizione delle saghe nordiche risalenti all’antichità e all’alto medioevo (ad esempio gli Edda). Questi due filoni presentano caratteristiche molto diverse: l’universo cavalleresco nasce dalla civiltà cortese, ha un’impronta mistica cristiana, presuppone i valori della cavalleria e un’organizzazione sociale e civile più evoluta e raffinata. Qui l’amore, seguendo una tradizione tipicamente occidentale che risente anche del mito e della tragedia greca, è per lo più contrastato e posto sulla bilancia con la fedeltà ad altri princìpi tra cui il dovere e la ragion di stato (pensiamo solo all’Antigone di Sofocle e alla Gerusalemme liberata, passando attraverso le vicende di Tristano e Isotta o il carteggio di Abelardo ed Eloisa).
Le saghe nordiche riflettono invece un universo barbarico, pagano e primitivo, privo di una strutturata teologia, di decaloghi etici, di promesse salvifiche, di qualunque trascendenza: in esso gli dèi stessi soggiacciono a un destino implacabile (analogamente alla Moira per gli dèi dell’Olimpo) e ne sono persino sconfitti (Ragnarok); è un campo di lotta selvaggio, primordiale, regolato da princìpi comportamentali elementari, dominato dagli istinti, dalla volontà di affermazione cieca, acritica e violenta di uomini e di altre creature; in esso, l’amore è una passione furente come la vendetta, la brama di potere o l’incanto ammaliatore dell’oro, e come tale è sottratto a qualunque calcolo o contrappeso.
Da ciò risulta chiaro come, già da sola, tale stratificazione costringa il Trono di spade a mediare tra rappresentazioni della realtà parecchio differenti, come il tema centrale del libero arbitrio e della predestinazione.
E così, noi, pubblico della parte economicamente e socialmente più progredita di questo pianeta, sempre più globalizzati e laicizzati, sempre meno ancorati al senso di tradizioni locali, sempre più lontani da afflati mistici e meno attratti dal mysterium religioso della vita, attenti piuttosto a rapporti costo/beneficio, a una connettività immediata, più interessati alla moltiplicazione dei diritti, alla democraticizzazione della nuova conoscenza e della scienza piuttosto che alla perpetuazione dell’antico sapere, avvezzi assai maggiormente ai simboli intesi come icone digitali piuttosto che a emblemi archetipici, pronti a relativizzare tutto e a chiosare qualunque asserto con yes but…, tanto abituati all’idea di iperspecializzazione ma assai meno alla gestione di complessità filosofiche che oltrepassano la dura legge del TLNR (too long, not read), noi ci troviamo davanti, nel Trono di spade, a un’abissale, caotica profondità di millenni di umanità con la quale e rispetto alla quale abbiamo perso contatto e familiarità.
Assuefatti a più semplici contrapposizioni (al peggio di un confortevole manicheismo, al meglio colorate da poche e non decisive sfumature come Star Wars), veniamo presi a schiaffi dalla complessità inafferrabile di un mondo che a tratti pare amorale, a tratti suggerisce una morale fluida, per lo più sfuggente. Situazioni e gesti di eroismo senza spettatori e senza premio si alternano a esempi di generosità premiata e di cattiveria punita. Così, a volte sembrano prevalere forze – di ordine spirituale e materiale - più arcaiche e cieche, a volte più moderne e razionali. Peggio ancora quando questa incertezza diventa ontologica e teologica: l’unico barlume di “cristianità”, di Provvidenza divina, giunge dal Dio della Luce, che se ha riportato Jon Snow indietro dalla morte e accende un miracoloso muro di fuoco a Grande Inverno contro l’esercito dei morti, si pasce però – come un crudele dio celtico o germanico - di sangue e sacrifici di innocenti; in suo nome vengono innalzati roghi di eretici e ha come profetessa una vera e propria strega, ambigua e a tratti senza scrupoli: la Donna Rossa.
Il Trono di spade è insomma poco rassicurante, non offre risposte sempre uguali e coerenti a situazioni dello stesso tipo: ogni volta che ci sembra di trovare una costante, qualcosa interviene ad abbattere l’illusione.
A voler calcare la mano, Il trono di spade suggerisce persino il dubbio cartesiano che un demone maligno prenda in giro gli uomini, trattandoli come goffi burattini e illudendoli che le cose abbiano senso. Eppure questa scelta di Martin - non pendere mai in modo deciso e definitivo dalla parte ‘moderna’ cavalleresca o da quella antica barbarica, crea un potente moto perpetuo nella storia, una straordinaria tensione narrativa che il solo espediente dell’entralecement (intreccio) tipico del genere cavalleresco non saprebbe produrre. Ma questa stessa scelta ha anche l’effetto di suscitare in noi delusione e perplessità, perché invece di regalarci la realizzazione di un piano perfetto del destino (perfetto secondo il nostro punto di vista) con Jon Snow sul trono e Daenerys diventata sua mite consorte, invece di farci dimenticare per un po’ le incognite preoccupanti della vita reale, i compromessi, i mal comuni mezzi gaudi… ci ripropone tutto questo in chiave fantasy.
No, il Trono di spade non fa sconti, non è compiacente con i bisogni e le aspettative dei millenials o delle generazioni seguenti: come la Dea Bendata, distribuisce fortune e mali senza particolare riguardo al merito.

Perché in un villaggio un povero ragazzo ha rubato un uovo
oscilla al sole, mentre un altro si allontana con mille crimini
Quando ti aspetti fischietti sono flauti
Quando ti aspetti flauti sono fischietti

Così cantano i Dead can dance in Fortune presents gifts not according to the book, una delle loro suggestive canzoni medievaleggianti.
Eppure, dopo tutto, un disegno si afferma: con fatica, con tenacia, dopo che sembrava essersi smarrito, anche se (grazie a Dio…) non si realizza secondo i canoni di una fiaba al borotalco.


L’elezione di Bran il Rotto

Arriviamo dunque alla risoluzione della vicenda, a questo finale che è grande perché non è magnificante, e assomiglia più all’amore vero che a una travolgente passione.
E cominciamo dall’elezione di Bran il Rotto, in cui vediamo in atto quella tensione tra livello antico-barbarico e moderno-civile di cui abbiamo detto, tensione che si declina anche come momento di trapasso tra vecchio e nuovo ordine etico-politico.
La successione regale, nei sistemi antico-barbarici prevedeva requisiti come l'ereditarietà di sangue, la primogenitura, l’attitudine alla guerra e il riconoscimento (rispetto e approvazione) da parte degli uomini liberi che costituiscono l’aristocrazia guerriera. Jon Snow ha tutto questo ed è tutto questo, ma Jon Snow non è qui chiamato a essere un re tribale, bensì il monarca di un insieme di regni che riemergono stremati da una guerra civile. Inoltre egli è merce di scambio di forze straniere (Dothraki e Immacolati) a cui lui  ha proditoriamente assassinato il capo assoluto e indiscusso. La necessità di rendere conto di ciò per evitare un'ulteriore guerra lo esclude da un ruolo che - peraltro - , anche a dispetto del favore popolare, lui per primo non desidera. Il suo stesso nome “Snow” è un nomen-omen: presagio di un destino che lo porta lontano dal temperato Approdo del Re, alla nevosa Barriera dove vigilano i Guardiani della Notte.
D'altronde, nelle società arcaiche, il rispetto e l'autorità non sono esclusivo appannaggio dei guerrieri: spettano anche ad altre figure dotate di qualità uniche e fondamentali per la comunità: sapienza, tecnica, conoscenza dei segreti della natura, memoria del passato, capacità profetiche. Costoro possono benissimo essere invalidi (ciechi, storpi, folli,  "categorie protette" diremmo oggi). Dopo un periodo di continui massacri, anche nel sistema di civiltà barbarico si sente il bisogno di dare spazio alle qualità alternative della lungimiranza, adatte alla ricostruzione e alla pace: un re paralitico ma capace di volare: un Corvo a Tre Occhi. Bran è il predestinato, l'uomo della medicina che guarirà Westeros, in altre parole uno sciamano, e cioè  colui che compie “il volo dell’anima”, che viaggia tra il mondo dei morti e quello dei vivi: può esservi qualcosa di più ancestrale, primordiale, remoto? E cosi, in un mirabile mélange di arcaismo e progresso, si provvede, grazie a una diplomazia che invece  è assolutamente consona alla nostra epoca, a eleggere non un re condottiero ma un 're sacro', figura collocata da un classico dell'antropologia come Il Ramo d'oro di James Frazer nella più profonda preistoria della civiltà indoeuropea. Lo scarto verso il nuovo consiste nel fatto che questo re sacro abbandona il suo ruolo sacerdotale per assumerne uno laico, politico e diplomatico.
Assistiamo dunque al momento in cui, per tentativi, l'ordinamento vecchio, ormai incapace di rispondere a problemi nuovi, cede il passo a soluzioni nuove, pur entro dei limiti tollerabili. La successione, in questa situazione di eccezionalità, avverrà per elezione. Ma una elezione limitata, oligarchica, riservata ai grandi signori di Westeros sopravvissuti ad anni di massacri. L'ipotesi di un suffragio universale di Sam è infatti derisa (sarebbe stato irreale il contrario), ma allo stesso tempo anche l'autocandidatura di Edmure Tully è canzonata e bloccata in modo bonario perché ancora ostinatamente legata a una meritocrazia guerresca che è percepita attualmente come inopportuna.
Rottura, quindi, ma senza stravolgere nelle fondamenta il sistema, senza sovvertimenti ‘giacobini’. Traghettatore del processo è Tyrion Lannister, il quale - insieme a Bran - risolve brillantemente la potenziale crisi provocata dal rifiuto (solo in parte sorprendente) di Samsa di far inginocchiare il Nord, di cui è regina, al fratello. Tyrion ricorre a un espediente intellettualmente moderno, diciamo pure machiavellico, di carattere semantico: cambia il titolo di Bran da "re dei sette" a "re dei sei regni", annullando così un elemento di discordia che era puramente concettuale.


La morte di Daenerys

Quanto a Daenerys, al di là della succitata contrapposizione tragica amore vs ragion di stato (ma qui anche amore di coppia vs amore per il popolo), la sua eliminazione è la conseguenza inevitabile del fatto che la Regina dei Draghi è totalmente incompatibile col sistema valoriale di Westeros, il quale – pur oscillando ancora tra barbarico e ‘moderno’ - è già pervasivamente regolato dal principio della mediazione, della composizione dei conflitti: ci si viene incontro, si stipulano compromessi. Daenerys è tutto l’opposto: non conosce compromessi, e se per caso vi acconsente, lo fa da una posizione comunque dominante, a mo’ di benevola concessione - , oppure, come nel caso della devastazione di Approdo del Re, non li rispetta sulla base di un suo personale senso di ‘giustizia’.
Questa incompatibilità non si impernia tanto su un discorso di 'purezza' che contrappone l’adamantina Daenerys (così sensibile al tradimento da soffrirne alle lacrime e reagire poi con rabbia distruttiva) al dedalo di intrighi bizantini dei Sette Regni, ma sul fatto in sé di concepire la possibilità del compromesso. Daenerys, straniera dell’Est alla guida, come Attila, di un’orda di guerrieri devoti e votati al sacrificio, è un corpo estraneo rispetto allo scacchiere da Italia rinascimentale di Westeros in cui vediamo misurarsi l’intelligenza e la scaltrezza politica di figure come Tyrion Lannister, Varys, Baelish. Lei, semplicemente, ne rifiuta le logiche. Il rifiuto del compromesso si trasmette ai suoi fedeli: Verme Grigio respinge sdegnoso la proposta di Davos che, come compensazione, propone agli Immacolati le terre di Alto Giardino. Il fedele ufficiale della Khaleesi vuole solo giustizia.
Qui va peraltro osservato un fenomeno tipico di molte opere fantasy, che io definisco rispecchiamento enciclopedico, ossia la tendenza a creare mondi immaginari caratterizzati da geopolitiche che ricalcano - o riecheggiano - la nostra esperienza storica: nella geografia del Trono di Spade ritroviamo un continente occidentale (Westeros) che è specchio dell’Occidente Europeo ariano, di stampo celto-germanico a nord e più mediterraneo a sud; un continente orientale (Essos) e uno meridionale (Sothoryos) a cui corrispondono elementi afro-asiatici, con tutte le suggestioni e i relativi richiami a costumi, architetture e filosofie che ben conosciamo.
In coerenza con questa geopolitica del rispecchiamento, Arya, al pari di un Cristoforo Colombo, si imbarca a giochi fatti nel misterioso mare occidentale con la speranza di scoprire qualche nuovo mondo. Servono altri richiami simbolici per indicare che siamo a un punto di svolta, a un passaggio epocale tra il ‘vecchio” e il “nuovo”?
Restando ancora all’interno del rispecchiamento enciclopedico, dunque, Daenerys è rappresentante dell’assolutismo ‘orientale’ che individua nel sovrano un vero e proprio dio incarnato, dotato di autorità totale e indiscussa e al di sopra di qualunque legge. Da questo punto di vista Daenerys, rispetto al Westeros, non è anacronistica ma ‘anatopica’, ossia “fuori luogo”.
Jon Snow - Daenerys è una storia d’amore che non può funzionare come non funzionerebbe tra il Leonida e il Serse di Trecento: due blocchi ideologicamente contrapposti: il continente occidentale combatte con soldati che, al pari di quelli delle città-stato greche dell’antichità, sono innanzitutto cittadini decisi a difendere la propria libertà politica (qui monarchica ovviamente) e personale, risoluti a non inginocchiarsi davanti ad alcun tiranno straniero; dall'oriente, invece, arriva un possente esercito che, analogamente a quello dell'Impero Persiano, è composto di schiavi e guerrieri devoti a una sola causa: la loro Regina-Dea.
Nella Vita di Temistocle di Plutarco, così si rivolge il persiano Artabano al condottiero greco Temistocle: “Voi, si dice, ammirate su tutto la libertà e l'uguaglianza; per noi, fra le molte e belle usanze che abbiamo, la più bella è il rispetto per il re e la genuflessione davanti a lui come davanti all'immagine del dio che provvede all'universo.”
Non importa allora che la Regina dei Draghi si creda un sovrano illuminato, decisivo è che lei pretende potere e obbedienza assoluti senza margine di discussione, senza possibilità di mediazione. Daenerys non ha dubbi, ma solo certezze: la certezza di essere nel giusto, la certezza di avere la chiave della felicità universale, la certezza di avere una missione per la quale il Destino le ha già garantito il successo: è questo a renderla assolutamente spaventosa, alla fine anche agli occhi di Jon Snow. Ciò che, nel Signore degli anelli, Gandalf dice sprezzante a Saruman riguardo a Sauron si adatta benissimo a Daenerys: “Sauron non spartisce il potere”. E Jon Snow probabilmente intuisce che chi non sa spartire, non è nemmeno capace di amare.

Chiudo con lo stupendo discorso di Tyrion Lannister, commovente richiamo all'importanza della memoria, dell'identità e delle tradizioni, unico vero scudo, salvezza, consolazione di fronte a qualunque male e distruzione:

Cosa unisce le persone? Armate? Oro? Vessilli? No, storie. Non c'è niente di più potente di una buona storia. Niente può fermarla. Nessun nemico può sconfiggerla. E chi ha una storia migliore di Bran il Rotto? Il bambino che è caduto da una torre ed è sopravvissuto. Sapeva che non avrebbe più camminato, perciò ha imparato a volare. Si è spinto oltre la Barriera, un bambino storpio. Ed è diventato il Corvo a Tre Occhi. È la nostra memoria, il custode di tutte le nostre storie. Di guerre, matrimoni, nascite, massacri, carestie. Dei nostri trionfi. Delle nostre sconfitte. Del nostro passato. Chi meglio di lui per guidarci verso il futuro?

Perché è giusto e perché è wyrd, che vi piaccia o no.


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