Delusione e perplessità.
Ma
era inevitabile che Daenerys morisse?
E
perché è diventato re Bran il Rotto e non Jon Snow?
Sia
chiaro, l’ottava stagione del Trono di Spade ha evidenziato
dei difetti: una certa “fretta di arrivare a …”, la fiacchezza
di alcune interpretazioni, la sensazione che dietro certi stati
d’animo o veri e propri psicodrammi si celi una sorta di forzatura
(a incominciare dall’Eros-Thanatos tra Jon Snow e Daenerys). Queste
pecche diamole per assodate e passiamo oltre; è infatti importante esaminare aspetti decisamente più seri delle performance attoriali o
dello smalto degli sceneggiatori: aspetti di natura più essenziale,
e precisamente – per usare un termine impegnativo –
storico-antropologica. Diversamente, non è possibile giudicare con
serena cognizione l’episodio di chiusura che, come è inevitabile,
ci porta a esprimere considerazioni complessive sul senso generale -
o forse sarebbe meglio dire lo spirito - dell’intera epopea
concepita da George Martin.
Intanto,
diciamo subito che la differenza tra una storia avvincente e una
storia profonda è un po’ la stessa che corre tra una travolgente
passione e il vero amore: la prima è un’esplosione pirotecnica che
bombarda nell’immediato i sensi, ma poi si riassorbe in fretta
lasciando più che altro un senso di vuoto; il secondo, pur privo
della spettacolarità dei fuochi d’artificio, si irradia quieto e
costante superando le onde del tempo.
Personalmente,
sono convinto che Il trono di Spade sia vero amore e non
passione e intendo dimostrarlo. Torniamo quindi alle brucianti
domande dell’incipit:
Era
inevitabile che Daenerys morisse?
Perché
è diventato re Bran il Rotto e non Jon Snow?
La
risposta del Trono di spade è una, categorica e piuttosto
irritante: perché è giusto e perché è wyrd (destino), che vi
piaccia o no.
E
badate, tanto la “e” tra giusto e wyrd quanto quel
“che vi piaccia o no” sono parte integrante e sostanziale della
risposta. Dicevamo, ci servono coordinate storico-antropologiche.
Dobbiamo
tenere in considerazione, da un lato, il particolare genere
dell’opera, le tradizioni di cui è erede e quindi dei sistemi
di civiltà di cui è espressione; dall’altro, il pubblico
(noi) a cui l'opera è rivolta, con le sue aspettative e relativo ordine di
valori in cui si riconosce: di fatto, un ancor diverso sistema di
civiltà.
Tra
questa epopea e noi esistono dei gap, non tutti o non
del tutto colmabili, ed è esattamente questo a produrre in molti
spettatori delusione e perplessità. Delusione e perplessità –
peraltro – sarebbero una reazione naturale di chi non riconosce gli
sforzi o magari non condivide le soluzioni proposte da George Martin
per gettare un ponte tra sistemi così distanti.
D'altronde, questa non è una fiaba al borotalco, ma il risultato
dell’incrocio e della stratificazione dell’epica cavalleresca
tardo-medievale e moderna da una parte (dal Ciclo Brettone
all’Orlando Furioso), con la tradizione delle saghe
nordiche risalenti all’antichità e all’alto medioevo (ad esempio
gli Edda). Questi due
filoni presentano caratteristiche molto diverse: l’universo
cavalleresco nasce dalla civiltà cortese, ha un’impronta mistica
cristiana, presuppone i valori della cavalleria e un’organizzazione
sociale e civile più evoluta e raffinata. Qui
l’amore, seguendo una tradizione tipicamente occidentale che
risente anche del mito e della tragedia greca, è per lo più
contrastato e posto sulla bilancia con la fedeltà ad altri princìpi
tra cui il dovere e la ragion di stato (pensiamo solo all’Antigone
di Sofocle e alla Gerusalemme liberata, passando
attraverso le vicende di Tristano e Isotta o il carteggio di Abelardo
ed Eloisa).
Le
saghe nordiche riflettono invece un universo barbarico, pagano e
primitivo, privo di una strutturata teologia, di decaloghi etici, di
promesse salvifiche, di qualunque trascendenza: in esso gli dèi
stessi soggiacciono a un destino implacabile (analogamente alla Moira
per gli dèi dell’Olimpo) e ne sono persino sconfitti (Ragnarok); è
un campo di lotta selvaggio, primordiale, regolato da princìpi
comportamentali elementari, dominato dagli istinti, dalla volontà
di affermazione cieca, acritica e violenta di uomini e di altre
creature; in esso, l’amore è una passione furente come la
vendetta, la brama di potere o l’incanto ammaliatore dell’oro, e
come tale è sottratto a qualunque calcolo o contrappeso.
Da
ciò risulta chiaro come, già da sola, tale stratificazione
costringa il Trono di spade a mediare tra
rappresentazioni della realtà parecchio differenti, come il tema
centrale del libero arbitrio e della predestinazione.
E
così, noi, pubblico della parte economicamente e socialmente più
progredita di questo pianeta, sempre più globalizzati e laicizzati,
sempre meno ancorati al senso di tradizioni locali, sempre più
lontani da afflati mistici e meno attratti dal mysterium religioso
della vita, attenti piuttosto a rapporti costo/beneficio, a una
connettività immediata, più interessati alla moltiplicazione dei
diritti, alla democraticizzazione della nuova conoscenza e della
scienza piuttosto che alla perpetuazione dell’antico sapere,
avvezzi assai maggiormente ai simboli intesi come icone digitali
piuttosto che a emblemi archetipici, pronti a relativizzare tutto e a
chiosare qualunque asserto con yes but…, tanto abituati
all’idea di iperspecializzazione ma assai meno alla gestione di
complessità filosofiche che oltrepassano la dura legge del TLNR (too
long, not read), noi ci troviamo davanti, nel Trono di spade,
a un’abissale, caotica profondità di millenni di umanità con la
quale e rispetto alla quale abbiamo perso contatto e familiarità.
Assuefatti
a più semplici contrapposizioni (al peggio di un confortevole
manicheismo, al meglio colorate da poche e non decisive sfumature
come Star Wars), veniamo presi a schiaffi dalla complessità
inafferrabile di un mondo che a tratti pare amorale, a tratti
suggerisce una morale fluida, per lo più sfuggente. Situazioni e
gesti di eroismo senza spettatori e senza premio si alternano a
esempi di generosità premiata e di cattiveria punita. Così, a
volte sembrano prevalere forze – di ordine spirituale e materiale -
più arcaiche e cieche, a volte più moderne e razionali. Peggio
ancora quando questa incertezza diventa ontologica e teologica:
l’unico barlume di “cristianità”, di Provvidenza divina,
giunge dal Dio della Luce, che se ha riportato Jon Snow
indietro dalla morte e accende un miracoloso muro di fuoco a Grande
Inverno contro l’esercito dei morti, si pasce però – come un
crudele dio celtico o germanico - di sangue e sacrifici di innocenti;
in suo nome vengono innalzati roghi di eretici e ha come profetessa
una vera e propria strega, ambigua e a tratti senza scrupoli: la
Donna Rossa.
Il
Trono di spade è insomma poco rassicurante, non offre
risposte sempre uguali e coerenti a situazioni dello stesso tipo:
ogni volta che ci sembra di trovare una costante, qualcosa interviene
ad abbattere l’illusione.
A
voler calcare la mano, Il trono di spade suggerisce persino il
dubbio cartesiano che un demone maligno prenda in giro gli uomini,
trattandoli come goffi burattini e illudendoli che le cose abbiano
senso. Eppure questa scelta di Martin - non pendere mai in modo
deciso e definitivo dalla parte ‘moderna’ cavalleresca o da
quella antica barbarica, crea un potente moto perpetuo nella storia,
una straordinaria tensione narrativa che il solo espediente
dell’entralecement (intreccio) tipico del genere
cavalleresco non saprebbe produrre. Ma questa stessa scelta ha anche
l’effetto di suscitare in noi delusione e perplessità, perché
invece di regalarci la realizzazione di un piano perfetto del destino
(perfetto secondo il nostro punto di vista) con Jon Snow sul
trono e Daenerys diventata sua mite consorte, invece di farci
dimenticare per un po’ le incognite preoccupanti della vita reale,
i compromessi, i mal comuni mezzi gaudi… ci ripropone tutto questo
in chiave fantasy.
No,
il Trono di spade non fa sconti, non è compiacente con i
bisogni e le aspettative dei millenials o delle generazioni seguenti:
come la Dea Bendata, distribuisce fortune e mali senza particolare
riguardo al merito.
Perché
in un villaggio un povero ragazzo ha rubato un uovo
oscilla
al sole, mentre un altro si allontana con mille crimini
Quando
ti aspetti fischietti sono flauti
Quando
ti aspetti flauti sono fischietti
Così
cantano i Dead can dance in Fortune presents gifts not
according to the book, una delle loro suggestive canzoni
medievaleggianti.
Eppure,
dopo tutto, un disegno si afferma: con fatica, con tenacia, dopo che
sembrava essersi smarrito, anche se (grazie a Dio…) non si realizza
secondo i canoni di una fiaba al borotalco.
L’elezione
di Bran il Rotto
Arriviamo
dunque alla risoluzione della vicenda, a questo finale che è
grande perché non è magnificante, e assomiglia più
all’amore vero che a una travolgente passione.
E
cominciamo dall’elezione di Bran il Rotto, in cui vediamo in atto
quella tensione tra livello antico-barbarico e moderno-civile di cui
abbiamo detto, tensione che si declina anche come momento di trapasso
tra vecchio e nuovo ordine etico-politico.
La
successione regale, nei sistemi antico-barbarici prevedeva requisiti
come l'ereditarietà di sangue, la primogenitura, l’attitudine alla
guerra e il riconoscimento (rispetto e approvazione) da parte degli
uomini liberi che costituiscono l’aristocrazia guerriera. Jon Snow
ha tutto questo ed è tutto questo, ma Jon Snow non è qui chiamato a
essere un re tribale, bensì il monarca di un insieme di regni che
riemergono stremati da una guerra civile. Inoltre egli è merce di
scambio di forze straniere (Dothraki e Immacolati) a cui lui ha
proditoriamente assassinato il capo assoluto e indiscusso. La
necessità di rendere conto di ciò per evitare un'ulteriore guerra
lo esclude da un ruolo che - peraltro - , anche a dispetto del favore
popolare, lui per primo non desidera. Il suo stesso nome “Snow”
è un nomen-omen: presagio di un destino che lo porta lontano dal
temperato Approdo del Re, alla nevosa Barriera dove vigilano i
Guardiani della Notte.
D'altronde,
nelle società arcaiche, il rispetto e l'autorità non sono esclusivo
appannaggio dei guerrieri: spettano anche ad altre figure dotate di
qualità uniche e fondamentali per la comunità: sapienza, tecnica,
conoscenza dei segreti della natura, memoria del passato, capacità
profetiche. Costoro possono benissimo essere invalidi (ciechi,
storpi, folli, "categorie protette" diremmo oggi).
Dopo un periodo di continui massacri, anche nel sistema di civiltà
barbarico si sente il bisogno di dare spazio alle qualità
alternative della lungimiranza, adatte alla ricostruzione e alla
pace: un re paralitico ma capace di volare: un Corvo a Tre Occhi.
Bran è il predestinato, l'uomo della medicina che guarirà Westeros,
in altre parole uno sciamano, e cioè colui che compie “il volo
dell’anima”, che viaggia tra il mondo dei morti e quello dei vivi: può
esservi qualcosa di più ancestrale, primordiale, remoto? E cosi, in
un mirabile mélange di arcaismo e progresso, si provvede, grazie a
una diplomazia che invece è assolutamente consona alla nostra
epoca, a eleggere non un re condottiero ma un 're sacro', figura
collocata da un classico dell'antropologia come Il Ramo d'oro
di James Frazer nella più profonda preistoria della civiltà
indoeuropea. Lo scarto verso il nuovo consiste nel fatto che questo
re sacro abbandona il suo ruolo sacerdotale per assumerne uno
laico, politico e diplomatico.
Assistiamo
dunque al momento in cui, per tentativi, l'ordinamento vecchio, ormai
incapace di rispondere a problemi nuovi, cede il passo a soluzioni
nuove, pur entro dei limiti tollerabili. La successione, in questa
situazione di eccezionalità, avverrà per elezione. Ma una elezione
limitata, oligarchica, riservata ai grandi signori di Westeros
sopravvissuti ad anni di massacri. L'ipotesi di un suffragio
universale di Sam è infatti derisa (sarebbe stato irreale
il contrario), ma allo stesso tempo anche l'autocandidatura di Edmure
Tully è canzonata e bloccata in modo bonario perché ancora
ostinatamente legata a una meritocrazia guerresca che è percepita
attualmente come inopportuna.
Rottura,
quindi, ma senza stravolgere nelle fondamenta il sistema, senza
sovvertimenti ‘giacobini’. Traghettatore del processo è Tyrion
Lannister, il quale - insieme a Bran - risolve brillantemente la
potenziale crisi provocata dal rifiuto (solo in parte sorprendente)
di Samsa di far inginocchiare il Nord, di cui è regina, al fratello.
Tyrion ricorre a un espediente intellettualmente moderno, diciamo
pure machiavellico, di carattere semantico: cambia il titolo di Bran
da "re dei sette" a "re dei sei regni",
annullando così un elemento di discordia che era puramente
concettuale.
La
morte di Daenerys
Quanto
a Daenerys, al di là della succitata contrapposizione tragica amore
vs ragion di stato (ma qui anche amore di coppia vs amore per il
popolo), la sua eliminazione è la conseguenza inevitabile del fatto
che la Regina dei Draghi è totalmente incompatibile col sistema
valoriale di Westeros, il quale – pur oscillando ancora tra
barbarico e ‘moderno’ - è già pervasivamente regolato dal
principio della mediazione, della composizione dei conflitti: ci si viene incontro, si stipulano compromessi. Daenerys
è tutto l’opposto: non conosce compromessi, e se per caso vi
acconsente, lo fa da una posizione comunque dominante, a mo’ di
benevola concessione - , oppure, come nel caso della devastazione di
Approdo del Re, non li rispetta sulla base di un suo personale senso
di ‘giustizia’.
Questa
incompatibilità non si impernia tanto su un discorso di 'purezza' che
contrappone l’adamantina Daenerys (così sensibile al tradimento da
soffrirne alle lacrime e reagire poi con rabbia distruttiva) al
dedalo di intrighi bizantini dei Sette Regni, ma sul fatto in sé di
concepire la possibilità del compromesso. Daenerys,
straniera dell’Est alla guida, come Attila, di un’orda di
guerrieri devoti e votati al sacrificio, è un corpo estraneo
rispetto allo scacchiere da Italia rinascimentale di Westeros in cui
vediamo misurarsi l’intelligenza e la scaltrezza politica di figure
come Tyrion Lannister, Varys, Baelish. Lei, semplicemente, ne
rifiuta le logiche. Il rifiuto del compromesso si
trasmette ai suoi fedeli: Verme Grigio respinge sdegnoso la proposta
di Davos che, come compensazione, propone agli Immacolati le terre
di Alto Giardino. Il fedele ufficiale della Khaleesi vuole solo
giustizia.
Qui
va peraltro osservato un fenomeno tipico di molte opere fantasy, che io
definisco rispecchiamento enciclopedico, ossia la
tendenza a creare mondi immaginari caratterizzati da geopolitiche che ricalcano - o riecheggiano - la nostra esperienza
storica: nella geografia del Trono di Spade ritroviamo un
continente occidentale (Westeros) che è specchio dell’Occidente
Europeo ariano, di stampo celto-germanico a nord e più mediterraneo
a sud; un continente orientale (Essos) e uno meridionale (Sothoryos)
a cui corrispondono elementi afro-asiatici, con tutte le suggestioni
e i relativi richiami a costumi, architetture e filosofie che ben
conosciamo.
In
coerenza con questa geopolitica del rispecchiamento, Arya, al pari di
un Cristoforo Colombo, si imbarca a giochi fatti nel misterioso mare
occidentale con la speranza di scoprire qualche nuovo mondo. Servono
altri richiami simbolici per indicare che siamo a un punto di svolta,
a un passaggio epocale tra il ‘vecchio” e il “nuovo”?
Restando
ancora all’interno del rispecchiamento enciclopedico,
dunque, Daenerys è rappresentante dell’assolutismo ‘orientale’
che individua nel sovrano un vero e proprio dio incarnato, dotato di
autorità totale e indiscussa e al di sopra di qualunque legge. Da
questo punto di vista Daenerys, rispetto al Westeros, non è
anacronistica ma ‘anatopica’, ossia “fuori luogo”.
Jon
Snow - Daenerys è una storia d’amore che non può funzionare come
non funzionerebbe tra il Leonida e il Serse di Trecento: due
blocchi ideologicamente contrapposti: il continente occidentale
combatte con soldati che, al pari di quelli delle città-stato greche
dell’antichità, sono innanzitutto cittadini decisi a difendere la propria
libertà politica (qui monarchica ovviamente) e personale, risoluti a non
inginocchiarsi davanti ad alcun tiranno straniero; dall'oriente, invece, arriva un possente esercito che, analogamente a quello dell'Impero Persiano, è composto di schiavi e guerrieri devoti a una sola causa:
la loro Regina-Dea.
Nella
Vita di Temistocle di Plutarco, così si rivolge il persiano
Artabano al condottiero greco Temistocle: “Voi, si dice,
ammirate su tutto la libertà e l'uguaglianza; per noi, fra le molte
e belle usanze che abbiamo, la più bella è il rispetto per il re e
la genuflessione davanti a lui come davanti all'immagine del dio che
provvede all'universo.”
Non
importa allora che la Regina dei Draghi si creda un sovrano
illuminato, decisivo è che lei pretende potere e obbedienza
assoluti senza margine di discussione, senza possibilità di
mediazione. Daenerys non ha dubbi, ma solo certezze: la certezza
di essere nel giusto, la certezza di avere la chiave della felicità
universale, la certezza di avere una missione per la quale il Destino
le ha già garantito il successo: è questo a renderla assolutamente
spaventosa, alla fine anche agli occhi di Jon Snow. Ciò che, nel Signore degli anelli, Gandalf
dice sprezzante a Saruman riguardo a Sauron si adatta benissimo a
Daenerys: “Sauron non spartisce il potere”. E Jon Snow
probabilmente intuisce che chi non sa spartire, non è nemmeno capace
di amare.
Chiudo
con lo stupendo discorso di Tyrion Lannister, commovente richiamo
all'importanza della memoria, dell'identità e delle tradizioni, unico
vero scudo, salvezza, consolazione di fronte a qualunque male e
distruzione:
Cosa
unisce le persone? Armate? Oro? Vessilli? No, storie. Non c'è niente
di più potente di una buona storia. Niente può fermarla. Nessun
nemico può sconfiggerla. E chi ha una storia migliore di Bran il Rotto? Il bambino che è caduto da una torre ed è sopravvissuto.
Sapeva che non avrebbe più camminato, perciò ha imparato a volare.
Si è spinto oltre la Barriera, un bambino storpio. Ed è diventato
il Corvo a Tre Occhi. È la nostra memoria, il custode di tutte le
nostre storie. Di guerre, matrimoni, nascite, massacri, carestie. Dei
nostri trionfi. Delle nostre sconfitte. Del nostro passato. Chi
meglio di lui per guidarci verso il futuro?
Perché
è giusto e perché è wyrd, che vi piaccia o no.
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